Sentenza n. 386/97

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SENTENZA N.386

ANNO 1997

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori Giudici:

- Dott. Renato GRANATA, Presidente

- Prof. Giuliano VASSALLI

- Prof. Francesco GUIZZI

- Prof. Cesare MIRABELLI  

- Prof. Fernando SANTOSUOSSO  

- Avv. Massimo VARI

- Dott. Cesare RUPERTO  

- Dott. Riccardo CHIEPPA  

- Prof. Gustavo ZAGREBELSKY  

- Prof. Valerio ONIDA

- Prof. Carlo MEZZANOTTE  

- Avv. Fernanda CONTRI

- Prof. Guido NEPPI MODONA  

- Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI  

- Prof. Annibale MARINI

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2-bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86 (Norme in materia previdenziale, di occupazione giovanile e di mercato del lavoro, nonchè per il potenziamento del sistema informatico del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), convertito nella legge 20 maggio 1988, n. 160, promosso con ordinanza emessa il 7 ottobre 1996 dal Pretore di Torino sul ricorso proposto da Gallian Claudio ed altri contro l’INPDAI, iscritta al n. 1296 del registro ordinanze 1996 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 1996.

Visti gli atti di costituzione di Gallian Claudio ed altri e dell’INPDAI nonchè l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’11 novembre 1997 il Giudice relatore Cesare Ruperto;

uditi l’avv.to Filippo Satta per Gallian Claudio ed altri e l’Avvocato dello Stato Sergio Laporta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di un giudizio in cui i ricorrenti, dirigenti d’azienda in pensione, avevano chiesto l’adeguamento delle pensioni in godimento, erogate dall’INPDAI, il Pretore di Torino, con ordinanza emessa il 7 ottobre 1996, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2-bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86 (Norme in materia previdenziale, di occupazione giovanile e di mercato del lavoro, nonchè per il potenziamento del sistema informatico del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 20 maggio 1988, n. 160, nella parte in cui, ai fini del calcolo della pensione erogata dall’INPDAI, limita il raddoppio dei massimali annui del quinquennio 1983-1987 esclusivamente a coloro che sono stati collocati in pensione a partire dal 1° gennaio 1988.

Premette il giudice a quo che, in un precedente giudizio, i tre odierni attori, collocati in pensione anteriormente al 31 dicembre 1987, avevano, unitamente ad altri, proposto analoga domanda. Essi, infatti, avevano richiesto l’applicazione del più vantaggioso criterio di calcolo della pensione stabilito dall’art. 3, comma 2-bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, nella legge 20 maggio 1988, n. 160, secondo il quale, ai fini di detto calcolo, per le pensioni liquidate dall’INPDAI "con decorrenza a partire dal 1° giugno 1988" le retribuzioni annue relative al quinquennio precedente sono prese in considerazione entro il limite pari al doppio dei massimali annui in vigore nel quinquennio suddetto. Con ordinanza emessa il 12 maggio 1992, che integralmente riporta, lo stesso Pretore aveva sollevato la medesima questione. In tale occasione egli aveva respinto la domanda dei ricorrenti collocati in pensione prima del quinquennio anteriore al 1° gennaio 1988, anche in ossequio alla giurisprudenza costituzionale in tema di "tetti" pensionistici e di scelte legislative circa le demarcazioni temporali delle prestazioni previdenziali.

La questione allora sollevata concerneva dunque tre dirigenti, andati in pensione prima del 1° gennaio 1988 ma nel corso di quei cinque anni, cioé proprio in quel quinquennio che gli altri dirigenti, collocati viceversa in pensione successivamente a tale data, si erano visti raddoppiare quanto a computabilità dei massimali ai fini del calcolo pensionistico.

In tale differenziazione il Pretore ravvisava irragionevolezza e violazione dell'art. 3 sotto il profilo della disparità di trattamento, osservando in proposito come coloro che fossero andati in pensione dopo il 31 dicembre 1987 beneficiassero di un calcolo della pensione basato sul raddoppio del tetto retributivo del precedente quinquennio, mentre chi fosse andato in pensione prima della data indicata percepiva una pensione commisurata al previgente massimale e, malgrado le successive perequazioni, era ben lontano dal potersi giovare del sostanziale raddoppio della base contributiva di riferimento. In sostanza le contribuzioni afferenti al quinquennio 1983-1987, a parità di tetto retributivo e di versamenti previdenziali, finivano per incidere in misura diversa a seconda che l’interessato fosse andato in pensione prima o dopo la data indicata.

Il Pretore rimettente dubitava della ragionevolezza della scelta legislativa, richiamando alcune decisioni della Corte ed esemplificando altresì la prospettata disparità attraverso l’ipotesi di due dirigenti collocati in pensione, rispettivamente, il 1° gennaio 1987 ed il 1° gennaio 1988. In tal caso i tre anni contributivi comuni e per i quali i versamenti sono stati identici, venivano a "pesare" in maniera ben diversa nel calcolo della pensione e precisamente per il doppio soltanto nel secondo caso: ciò esclusivamente in ragione della data del pensionamento. Chiedeva quindi una pronuncia caducatoria dell’inciso - contenuto nella norma censurata - che recita: "con decorrenza a partire dal 1° gennaio 1988"; in tal modo tutti coloro che fossero andati in pensione nel quinquennio avrebbero goduto per gli anni utili, del raddoppio disposto dalla norma.

Prosegue l’attuale rimettente rilevando come la Corte, con sentenza n. 57 del 1993, nel dichiarare la questione inammissibile, avesse peraltro affermato che competeva al legislatore un intervento di razionalizzazione complessiva, volto a ripristinare la legittimità costituzionale del tessuto normativo, intervento che non appariva ulteriormente dilazionabile: la questione non avrebbe infatti potuto non essere riconsiderata, anche sotto profili diversi, ove non si fosse provveduto ad armonizzare e non già a segmentare nel tempo la linea diagrammatica che segnava l’andamento dei trattamenti pensionistici in argomento.

Conclude quindi il giudice a quo che, a causa dell’inerzia del legislatore al riguardo, egli non può sottrarsi "all’onere di prospettare nuovamente la stessa questione".

2. - E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura dello Stato che, riservandosi di dedurre ulteriormente, ha concluso per la declaratoria d’inammissibilità o, in subordine, di non fondatezza.

3. - Nel giudizio dinanzi a questa Corte si sono costituiti i ricorrenti, riportandosi ampiamente alle motivazioni della sentenza n. 57 del 1993 e citando peraltro anche le sentenze n. 1 del 1993 (come esempio di eliminazione di una irragionevole discriminazione all’interno della stessa categoria) e n. 243 dello stesso anno che, nel riconoscere la computabilità dell’indennità integrativa speciale della buonuscita, ha escluso di poter proseguire sulla strada delle declaratorie d’inammissibilità rivolgendo moniti al legislatore nella perdurante inerzia di quest’ultimo. Hanno concluso i ricorrenti per la declaratoria di illegittimità costituzionale, osservando come i provvedimenti di perequazione - tutti precedenti alla sentenza n. 57 del 1993 - abbiano avuto una portata assai limitata.

Con ulteriore memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, essi hanno sottolineato che i suddetti interventi perequativi erano tutti presenti alla Corte nella sentenza n. 57 del 1993, sì chè l’adeguatezza degli stessi avrebbe concorso nell’affermare l’illegittimità del sistema normativo, là dove per il citato quinquennio accorda il raddoppio dei massimali ai soli dirigenti collocati in pensione a partire dal 1° gennaio 1988. L’illegittimità si sostanzierebbe poi - secondo la difesa - interamente nella norma impugnata, del cui precetto il D.M. 25 luglio 1988, n. 422, sarebbe pedissequamente attuativo, avendone solo dettato le modalità applicative.

Considerato in diritto

1. — Il Pretore di Torino dubita della legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2-bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86, convertito, con modificazioni, in legge 20 maggio 1988, n. 160, nella parte in cui prevede che soltanto per i dirigenti collocati in quiescenza dal 1° gennaio 1988 la pensione si calcoli raddoppiando i massimali contributivi del precedente quinquennio. Il giudice a quo ripropone la medesima questione già dichiarata inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 57 del 1993, reiterando la stessa censura, sempre in riferimento all’art. 3 della Costituzione, per l’asserita irragionevolezza intrinseca della norma e la disparità di trattamento che essa avrebbe determinato rispetto ai dirigenti collocati in pensione nel quinquennio antecedente alla data predetta, i quali, a parità di contribuzione, si sono visti calcolare la pensione entro il limite dei massimali allora vigenti. A parere del rimettente, il tempo ormai trascorso dalla succitata decisione, senza che il legislatore abbia proceduto all’intervento correttivo allora apparso alla Corte non ulteriormente dilazionabile, giustificherebbe un nuovo scrutinio di costituzionalità.

2. — La questione é inammissibile.

2.1. — Il thema decidendum proposto dal Pretore di Torino - che motiva l’ordinanza di rimessione riportando letteralmente il testo del proprio precedente atto di promovimento - é identico a quello oggetto della sentenza n. 57 del 1993, con cui la questione é stata dichiarata inammissibile per molteplici ragioni, nessuna delle quali é venuta meno.

Vero é che nella motivazione di quella sentenza, la Corte ritenne di dover segnalare l’esigenza di un’armonizzazione della linea d’andamento dei trattamenti pensionistici in esame, da attuarsi attraverso un intervento di razionalizzazione complessiva di competenza del legislatore. Ma ciò essa fece in connessione diretta col duplice rilievo: 1) che l’illegittimità costituzionale, così come prospettata, sembrava "sostanziarsi nella concessione stessa del beneficio, o meglio nella previsione regolamentare che ne ha determinato le modalità, più che nella mancata estensione del medesimo"; 2) che il "raddoppio dei massimali senza un correlativo recupero delle perequazioni medio tempore intervenute ed in assenza di un’equa regola di contribuzione [conseguente alla richiesta pronuncia d’incostituzionalità], determinerebbe un assetto incoerente del sistema".

Ragioni, codeste, concorrenti con le altre poste in luce nella stessa motivazione, onde pervenire alla declaratoria d’inammissibilità; e che permangono immutate, stante la surrilevata identicità dell’odierna prospettazione, anche con riguardo all’unico parametro evocato, rispetto alla precedente.

2.2. — A quanto sopra va aggiunto che, durante il tempo da allora trascorso, s’é venuto evolvendo tutto il quadro del sistema di previdenza, il quale appare ora caratterizzato dal definitivo affermarsi di uno stretto rapporto fra contribuzione e prestazione come principio generale del sistema stesso.

Nel disegno globale di quest’ultimo - già in corso di attuazione attraverso il decreto legislativo 24 aprile 1997, n. 181, emanato a sèguito della delega contenuta nell’art. 2, comma 22, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) - l’opera del legislatore non può ormai che articolarsi, fuori dai vecchi schemi del peculiare regime riguardante i dirigenti d’azienda dell’INPDAI, secondo le nuove coordinate di omogeneizzazione dei trattamenti, le quali vieppiù accentuano la complessità delle possibili soluzioni del problema qui in esame. Per cui é da ritenersi, da una parte, che la pronuncia additiva riprospettata dal giudice a quo condurrebbe ad un risultato ancor più incoerente che nel 1993 e, dall’altra, che non é consentito impostare ora la questione di costituzionalità negli stessi termini, alla stregua dei quali questa Corte auspicò allora un intervento del legislatore vòlto alla razionalizzazione della normativa in esame.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2-bis, del decreto-legge 21 marzo 1988, n. 86 (Norme in materia previdenziale, di occupazione giovanile e di mercato del lavoro, nonchè per il potenziamento del sistema informativo del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 20 maggio 1988, n. 160 (Norme in materia previdenziale, d’occupazione giovanile e di mercato del lavoro, nonchè per il potenziamento del sistema informatico del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Pretore di Torino con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 novembre 1997.

Presidente: Renato GRANATA

Redattore: Cesare RUPERTO

Depositata in cancelleria il 11 dicembre 1997.